Il femminismo a Milano Anni ‘70 Settima puntata L’esperienza dei corsi delle donne. Il corso “150” di via Gabbro 6. La Cooperativa “Gervasia Broxon”. 1976-1986.

Quando ho chiesto il trasferimento dalla scuola media di Melegnano ai “corsi 150 ore” per adulti –grande conquista delle lotte operaie per chi non aveva la licenza media- ero nel pieno del mio coinvolgimento femminista, profondamente convinta che la relazione uomo-donna fosse una questione centrale per ripensare la politica e le sue istituzioni, ma anche la storia, la cultura, i saperi e i linguaggi disciplinari, e decisa a portare nel mio ruolo di insegnante le consapevolezze nuove che mi venivano dal movimento delle donne. Sapevo che avrei trovato meno burocrazia e meno vincoli riguardo ai programmi, per cui mi sarebbe stato più facile introdurre nelle mie lezioni le tematiche che mi stavano a cuore e che erano sempre rimaste fuori dalla scuola. Nonostante sapessi che si trattava di una scuola prevalentemente operaia, il desiderio era di trovarvi presenze femminili.
Nominata molto tardi, ai primi di dicembre 1976, mi presentai alla scuola media di via Gabbro 6, in zona Affori-Bovisasca, senza illusioni e la mia grande sorpresa fu quando, aperta la porta, mi trovai di fronte a una trentina di donne, più qualche uomo. L’emozione fu tale che mi sedetti sulla prima sedia vuota, tanto che la mia vicina, prendendomi per una corsista, mi rassicurò dicendo che c’era stata una supplente e che “non avevano fatto ancora niente”. E’ cominciato così un’altra di quelle svolte che avrebbero segnato durevolmente –potrei fino ad oggi- la mia vita, i miei interessi, la mie scelte.
Le trenta ‘allieve’, non più giovani, erano quasi tutte casalinghe e avevano dovuto faticare non poco a farsi aprire un “modulo” nella loro zona. I sindacalisti, fermi all’idea di una scuola operaia, non capivano perché donne che erano state fino ad allora mogli e madri, impegnate nella cura della famiglia, volessero tornare a scuola, prendere una licenza media che non avrebbero probabilmente usato. Non appena abbiamo cominciato ad affrontare i temi che le rendevano più consapevoli di quella che era stata fino a quel momento la loro vita, è stato come se si fosse spalancata una porta, varcata la quale – come disse una di loro- non sarebbe stato più possibile tornare indietro. La felicità delle scoperte che venivano facendo si è espressa da subito con manifesti, volantini, dispense che preparavamo col ciclostile, i cui titoli erano già rivelatori del cambiamento che era avvenuto in loro e che avrebbe contagiato in breve tempo altre donne, altri quartieri di Milano. Ne ricordo alcuni: Più polvere in casa meno polvere nel cervello (nel disegno del manifesto una donnina che si spolverava la testa), L’uovo terremotato (un grande uovo spalancato da cui uscivano file di donne), E’ sparita la donna pallida e tutta casalinga, Acrobate, La Traversata.
Il corso di via Gabbro è diventato, fin dal 1976, un esempio e le donne che lo hanno frequentato si può dire che sono state delle ‘pioniere’dimostrando le potenzialità che hanno la scuola e la cultura di modificare i ruoli tradizionali della donna. L’esperienza di Affori ha attirato subito l’attenzione dei giornali e della televisione, tanto che si è pensato, con un’amica regista, di darne noi stesse notizia in modo più creativo. Il film-documentario di Adriana Monti, Scuola senza fine, in cui sono ricostruite le storie di alcune corsiste e l’incontro con me, sarà proiettato alla New York University in occasione di un convegno su “Donne e cinema in Italia”(1985). Molto apprezzato dalle femministe americane fu poi riportato quasi per intero nel libro Off Schreen, stampato a NY e Londra.
Per le corsiste era la riscoperta di una vita trascorsa all’interno della famiglia alla luce di una consapevolezza nuova. I loro scritti, nati spontaneamente sotto la spinta del desiderio di raccontarsi con una libertà fino allora sconosciuta, non avevano niente di retorico, di scolastico, andavano dritti alla verità che affiorava man mano dal pensare e confrontarsi con altre. Per me era, ancora una volta, ritrovare figure del mio passato, donne che somigliavano a quelle della mia famiglia, del mio paese; ricucire in qualche modo lo strappo che si era prodotto fra me e loro dal momento che io avevo potuto studiare, avere finalmente una lingua comune con cui parlarci, riflettere sulle nostre diverse esperienze. Ricordo in particolare Amalia Molinelli, contadina emiliana che, migrata con la famiglia in città, aveva fatto i mestieri più duri coltivando in modo silenzioso e solitario pensieri profondi, che trovarono immediatamente espressione nella scrittura. Era una lingua molto creativa, una commistione di dialetto e italiano, che entrava senza soggezione nei saperi specialistici – la matematica, la filosofica, la fisica- scombinandoli, costringendoli a confrontarsi con la vita personale, con la quotidianità, con il diverso destino toccato al maschio e alla femmina. Ne uscirà, anni dopo, un libro: I pensieri vagabondi di Amalia.
Finito il corso che avrebbe dato loro la licenza media, nel giugno 1976, come era prevedibile, le donne che l’avevano frequentato con tanto entusiasmo non vollero più rientrare a casa. Così dovetti inventarmi “corsi monografici” –inizialmente senza alcun riconoscimento istituzionale-, “bienni sperimentali”, usando aule messe a disposizione dalla scuola e invitando a tenere corsi, gruppi, lezioni, le amiche femministe che avevano saperi e pratiche da trasmettere. Per la maggior parte venivano dal gruppo, nato nel 1977 nella sede di Col di Lana, “sessualità e scrittura”.
Nel 1980, con un finanziamento europeo, nascerà in un locale del quartiere Bovisasca, la Cooperativa Gervasia Broxon. Il nome era inventato ma nessuno ha mai chiesto chi fosse. Le partecipanti era le stesse che avevano aperto il corso nel 1976, più altre che si erano via via aggiunte. Il fine della cooperativa era di prepararle a diventare delle grafiche, ma dietro c’era l’idea di interrogare i saperi disciplinari e il lavoro alla luce di una cultura che aveva escluso le donne, considerandole custodi ‘naturali’ della famiglia. Altrettanto importante era l’analisi dei rapporti che si venivano creando tra di noi, insegnanti e allieve, l’occasione che avevamo di ripensare la nostra formazione scolastica alla luce delle esperienze di vita che ne erano rimaste fuori.
Negli anni della “Milano da bere”, della “voglia di vincere”, che contagiò anche una parte del femminismo –in particolare la Libreria delle donne- la “scuola senza fine di Affori” per la complessità dei problemi che aveva scelto di affrontare, non poteva avere la risonanza che meritava, ma fu comunque un laboratorio unico e originale nel tentativo di mettere a confronto intellettuali e donne comuni. Le teorie elaborate dai gruppi femministi erano costrette ad esporsi agli interrogativi che venivano ancora una volta dalla vite concrete, oltre che a confrontarsi con discipline e linguaggi specialistici tradizionalmente ‘neutri’.
Nel quartiere di Affori Bovisasca ho trascorso, dal 1976 al 1986, quando si chiuderà la Cooperativa, i dieci anni più intensi del mio insegnamento e del mio impegno femminista. Pur senza vivere nel quartiere, trascorrevo lì la maggior parte del mio tempo, come se stessi effettivamente dando corpo a un altro ‘paese’, simile per tanti aspetti a quello che avevo lasciato in Romagna. In particolare, penso all’occasione che ho avuto di condividere con le mie corsiste e corsisti la passione per il ballo liscio. Nel seminterrato dove si svolgevano i corsi ogni ricorrenza era buona per organizzare feste e balli, a cui partecipavano talvolta anche gli ex-pazienti delle comunità legate al Paolo Pini.

Tutte le puntate in video:

http://www.memomi.it/it/00007/13/il-femminismo-a-milano.html

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