‘Quel corpo che mi abita’

Rossana Rossanda, “Quel corpo che mi abita”, a cura di Lea Melandri, Bollati Boringhieri 2018

Sono felice di informare che uscirà a breve un libro che sognavo da anni, il dono di un’amicizia tra me e Rossana Rossanda che dura da tanti anni e che ha trova nella raccolta dei suoi articoli sulla rivista “Lapis” (1987-1997) pensieri di straordinaria intensità, coraggiosa narrazione e riflessione su di sè.
Il titolo della mia “postfazione” – “L’amicizia. Un tranquillo deposito di sè”- sono parole sue, ma che condivido profondamente e di cui le sono grata.

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Simonetta Fiori intervista Rossana Rossanda

PARIGI. Una confessione intima, sorprendente. Uscendo dalla casa parigina di Rossana Rossanda, grandi vetrate affacciate sulla corte interna verdeggiante d’un bel palazzo borghese sul Lungosenna, ci si chiede se tra cinquant’anni esisteranno più queste grandi madri capaci ogni volta di spiazzarti. Di andare un passo più in là. Su questioni intime che investono la femminilità, il sesso, l’amore, la desiderabilità erotica delle donne. Il mistero del corpo e della morte.

Seduta sull’odiata carrozzina resa invisibile dal flusso di parole, Rossanda va dritta al cuore dei problemi. La bella faccia contrassegnata da quel neo bizzarro («l’ho sempre detestato, come il sigillo negativo in un racconto di Hawthorne…»), le lunghe mani affusolate che sono l’unica sua concessione alla vanità («erano bellissime, sì, d’una bellezza un po’ segreta, lo sai tu e non salta subito agli occhi»). Come capita nella vita di molte donne, anche la sua deve molto all’incontro con un’amica sideralmente lontana: Lea Melandri maestra di sapienza femminista. «Ci siamo sbaruffate molto, ma è stata Lea a farmi scoprire la specificità del femminile».

A distanza di svariati decenni, il volume Questo corpo che mi abita (Bollati Boringhieri) ripropone il ricchissimo scambio intercorso sulla rivista Lapis. E non poteva esserci occasione migliore per tagliare il nastro di un anniversario importante, il cinquantesimo della «più ridente» e «decisa» delle rivolte che riguarda anche chi allora non era nato. Perché «fu il Sessantotto a cambiare il senso delle relazioni, dando a tutti la parola». Nelle scuole, all’università. Nei

giornali e nei posti di lavoro. E soprattutto in famiglia. E «se pure il movimento non è stato in grado di conservare, ha segnato una linea di confine». Anche nel rapporto tra donne e uomini…

Continua sul Venerdì del 5 gennaio 2018, fonte online qui

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Rossana Rossanda, “Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al 1986”, Feltrinelli 1987.

Il ’68 di Rossana Rossanda

Da una pagina del libro:
Rossana Rossanda, “Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al 1986”, Feltrinelli 1987.

Un libro da ristampare

“Se mai avessi dubitato che si poteva scrivere, dai non toccati dalla grazia, soltanto così, come un servizio, ma ne avrebbe convinto il ’68: quelle assemblee, prima di studenti poi di tutti, riscoprivano l’io, rivestivano la protesta di gioco, vivevano la rivolta già come un modo di essere, implacabile gioioso; ma dissacrarono ferocemente, loro che erano un bizzarro prodotto del sapere, l’intellettuale di professione che si rispecchia in faccia al mondo ed esibisce le sue preziose viscere da un convegno all’altro, in alberghi confortevoli di luoghi esotici, il tutto pagato. Il ’68 irrideva in particolare l’intellettuale di sinistra, in nome della parla di tutti: che cos’ha di straordinario la “tua” parola per esigere più attenzione di quella dell’ultimo degli ultimi che si alza nell’assemblea di un’università, che non aveva mai osato varcare, per dire: ascoltatemi, sono io che parlo? O dei “cioè” che aprivano vertiginosi vuoti in coloro che si abbrancavano per la prima volta al microfono, e avevano un messaggio da mandare e non sapevano quale, ma essenzialmente che esistevano quanto te, signore e mestierante della parola?
Ancora pochi anni fa, al festival dei poeti di Castelporziano, qualcuno invase la scena nella speranza di enunciare parole decisive, perché per ognuno è decisiva la sua vita ed è atroce sentire che no, non lo è.
Furono, credo, gli ultimi a tentarlo. Oggi come prima siamo in pochi ad accedere ai microfoni, a un editore, a un canale televisivo, e nessuno ci contesta. Agli altri è stata tolta la certezza, o speranza, di avere una comunicazione importante da farci…”
(…)
Si dicono molte vacuità oggi su quel bisogno di un pensare e sentire collettivo che, è vero, toccò in alcuni il limite del misticismo e del ridicolo: ma allora fu sentito non come un demolitore della persona ma come un suo asse, luogo di realizzazione, ponte fra politico e morale, privato e collettivo. Così del resto è avvenuto sempre nei momenti di tensione sociale; di straordinario, a rendere più problematici quegli anni quegli anni e il loro rapido bruciarsi, fu la spinta gregaria di soggetti non gregari, nei quali già era più complessa d’un tempo la domanda rivolta al leader e più ultimativa la ricerca di senso collettivo. Non per affogare in esso ma per respirare in esso. Vanno prese alla lettera le parole di chi, in questi momenti o quando si addensano le scelte definitive, scrive: “Oggi la mia vita ha un senso, so quel che faccio, e anche se non ne vedrò la realizzazione, so per quale scopo sono al mondo”.
Questa non è assenza della dimensione della persona, ma un suo estremo affermarsi.”

Nota
La mia recensione al libro uscì su Il Manifesto il 15/16 marzo 1987 ed è stata poi ripubblicata nel mio libro “Lo strabismo della memoria”(Edizioni La Tartaruga 1991)

 

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Chi ha paura della cultura femminista?

Perché, mi chiedeva Rossana Rossanda, in uno degli ultimi incontri che abbiamo avuto in Italia, le donne oggi presenti in gran numero nella vita pubblica non riescono a cambiarla, perché il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura? E’ la stessa domanda che ci fece alla fine degli anni ’70 e che torna ancora oggi di sconfortante attualità.

Sono tentata di elencare, come faccio ormai da tempo, le difficoltà e gli ostacoli, esterni ed interni, che ha incontrato il movimento delle donne: la resistenza degli uomini ad abbandonare poteri e ruoli che considerano “connaturati” al loro sesso, e a cui fa da copertura più o meno consapevole la “neutralità”; l’intuizione, sia pure oscura e tenuta timorosamente a bada dalla sinistra, che mettere a tema la questione uomo-donna, come ricordava Pietro Ingrao già trent’anni fa, “comporta affrontare punti di fondo dell’origine della società in generale, investire caratteri e dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro, fino allo stesso senso del lavoro; incidere sulle forme di riproduzione della società, sul modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, forme e natura dell’assistenza” (Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1989).

E’ questa “rivoluzione” dell’ordine esistente – e quindi non solo la lotta contro governi conservatori, politici corrotti e antidemocratici- che spaventa? Sono le angosce profonde, le insicurezze insopportabili di chi vede comparire nell’autonomia di pensiero delle donne lo spettro di una rimossa inermità e dipendenza infantile dal corpo che l’ha generato?
Qualunque siano le ragioni e le forme che ha preso nel tempo la misoginia maschile, diffusa a destra come a sinistra, tra politici e intellettuali, capitalisti e lavoratori, nativi e migranti, l’interrogativo che più inquieta resta quello che riguarda le donne stesse, la loro rabbiosa acquiescenza, l’adattamento a ruoli tradizionali di ancelle o cortigiane, il profluvio di discorsi lamentosi sui famigliari da accudire, sulle carriere interrotte, sui meriti calpestati, sul doppio e triplo fardello di chi si trova oggi a far da ponte tra privato e pubblico.

Se la bontà come virtù ha perso smalto, non si può dire lo stesso per l’imperativo che vuole le donne “brave e belle”. Non è forse questa l’immagine femminile che ci viene offerta indistintamente dagli schermi televisivi e dalla scena politica? Se non sono corpi-sfondo- cornice, esposti come specchi per le allodole anche in trasmissioni di carattere culturale, sono le diligenti segretarie che filtrano le mail e a cui il conduttore rivolge di tanto in tanto paterni sguardi, chiamandole confidenzialmente per nome. Oppure sono loro stesse conduttrici, preferibilmente di bella presenza, preparate, impeccabili, attente e pazienti nell’ascolto come nella mediazione, in quell’arena di oratori scalmanati che sono ormai i dibattiti televisivi.

A quarant’anni dalla nascita del neofemminismo, che ha messo in discussione in modo radicale il modello maschile di società -a partire dalla divisione tra privato e pubblico, identificata col diverso destino di un sesso e dell’altro-, non si può dire che manchino una cultura e pratiche politiche portatrici di questa consapevolezza e responsabilità nuove. Quello che qualcuno ha chiamato sprezzantemente “piccoli cenacoli autoreferenziali”, residui di una “vecchia guardia” femminista preoccupata di mantenere la propria “egemonia, sono le centinaia di associazioni, gruppi, centri di documentazioni, biblioteche, librerie, case editrici, collettivi, case delle donne, centri antiviolenza, riviste, ecc., che hanno resistito finora all’arrogante messa sotto silenzio e marginalizzazione da parte della cultura dominante, custodi di un patrimonio di sapere che potrebbe dare risposte adeguate agli interrogativi del presente: personalizzazione della politica, populismo, razzismo, omofobia, trionfo della merce, esaurimento delle risorse naturali, crisi di un modello di sviluppo.

L’indignazione per le donne-oggetto, per lo scambio sesso-carriere, per la prostituzione trattata come opportunità di emancipazione femminile, ha portato anni fa un milione di donne e uomini nelle piazze. Come mai allora tanto silenzio sulla cancellazione dell’intelligenza che ha saputo negli anni costruire un’immagine del maschile e del femminile fuori dagli stereotipi di genere, un’idea di individuo “intero”, né solo corpo né solo mente, la prospettiva di una collettività responsabile della conservazione della vita, di quello che è rimasto finora destino di un sesso solo?
Non c’è bisogno di richiamare l’attenzione, come abbiamo fatto tante volte, sui grandi eventi culturali -la Fiera del libro di Torino, il convegno annuale dei filosofi di Modena, ecc.- dove i libri e le riviste del femminismo sono pressoché assenti.

Nel suo delirante ma lucidissimo sessismo, Otto Weininger ebbe almeno il coraggio di scrivere che “si può ben pretendere l’equiparazione giuridica dell’uomo e della
donna senza perciò credere nella loro eguaglianza morale e intellettuale”.
Non mi sembra che, a oltre un secolo di distanza, si sia andati molto oltre.

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PIETRO INGRAO e la sfida del femminismo.

La lezione che la sinistra continua a ignorare.

Per capire quanto fosse radicale la sfida che il femminismo, da luoghi considerati tradizionalmente “non politici”, veniva facendo al modello di civiltà maschile, basta leggere la conversazione che Rossana Rossanda fece con Pietro Ingrao all’interno di un ciclo di trasmissioni per Radiotre nel 1978:

“INGRAO: E’ che affrontare le questioni dell’emancipazione femminile comporta affrontare punti di fondo dell’organizzazione della società in generale. Ti faccio un esempio: se vuoi affrontare davvero il rapporto donna/uomo, devi investire caratteri e dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro, fino allo stesso senso del lavoro. Contemporaneamente -ecco dove la dimensione diventa diversa- vai a incidere sulle forme di riproduzione della società, sul modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, i rapporti tra padri e figli, l’educazione, il rapporto tra passato e presente, forme e natura dell’assistenza, eccetera. Cioè una concezione storica, secolare del privato, tutta una concezione delle stato, tutto il rapporto tra stato e privato (…)
ROSSANDA: Le donne sono portatrici di una visione della società fortemente interiorizzata nel privato, perché il privato è stato il campo dove sono state collocate, dal privato hanno assunto valori e norme, hanno derivato un modo di essere e quindi un’idea della comunicazione e dei rapporti. Bene, questo è un loro limite o un loro valore? Se è un limite, la questione femminile è essenzialmente un ritardo; le donne devono imparare la politica e la politica deve facilitare la loro ammissione. Ma se non fosse così? Non viviamo in questi anni un dubbio sui principi dell’organizzazione politica della società, una critica alla sua astrattezza, una tendenza riportare l’accento sulla persona? In questo la specifica esperienza dei rapporti fra persone della donne non può rappresentare un pesare sull’organizzazione tradizionale della sfera politica, modificarla?”
(Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1989, p.217)

Non dovrebbe stupire il fatto che venga da parte di un uomo la visione più radicale della posta in gioco: l’uscita dalla logica della complementarità, del semplice ribaltamento di un disvalore in valore, della “mancanza” in un “di più”, di un riequilibrio di poteri che non intacca alla radice la dualità su cui si è retto finora il dominio maschile.

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“UN AMICO E’ UN LUOGO DI TRANQUILLO DEPOSITO DI SÉ'”

(Rossana Rossanda)
La gratuità dell’amicizia – come dice Rossanda- sta nel dare senza togliere, nel lasciare che uno si ponga di fronte all’altro per quello che è, senza infingimenti, senza ricatti silenziosi o aspettative nascoste. Dove non c’è aggrappamento, indispensabilità reciproca, non c’è tentazione di fuga né ansia di possesso. L’amico si incontra senza risentimento per la lunga assenza, e dal silenzio che è calato in mezzo il discorso riprende come se non fosse mai stato interrotto. Difficile darne una definizione più precisa e suggestiva: “un tranquillo deposito di sé”.
Aggiungo: c’è da sperare che un giorno si possa dire lo stesso dell’amore.

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Rossana Rossanda, ‘Lei non può non vedersi vista’

Rossana Rossanda, “Una soglia sul mistero”, Lapis n.8, giugno 1990
“Anche se ha sgobbato e faticato nei millenni, nell’immaginario o simbolico non è definita dal fare, che è storico e contingente, ma dall’«apparire» in funzioni eterne, come la maternità e la seduzione. La prima sacrale e sacrificale, la seconda almeno nelle società patriarcali suo potere specifico e in qualche misura pericoloso per l’uomo, il quale è secondariamente se non per nulla seduttivo.
A lei la seduzione è così inerente che il «come appare» è decisivo: è anzitutto «vista». Uno specchio la accompagna sempre: è lo sguardo dell’uomo sul suo corpo, per cui è prima di tutto bella o brutta, bionda o bruna, gambe e seni e fianchi. Lei non può non vedersi vista. Le donne che fanno come se questo non fosse sono considerate virago, negatrici di sè. E sono rarissime.
Siamo così avvezze a curare la nostra apparenza, che appare eccentrico il non farlo. E sappiamo che il messaggio che con l’apparenza mandiamo non funge anzitutto da rivelatore dello status sociale ma del nostro corpo, enfatizzato dall’abito e dal maquillage. E per noi più che per l’uomo una deformazione, o la vecchiezza che sempre la comporta, fa un qualche ribrezzo, è una caricatura, un laido degenerare. Crudelissimo è lo standing cui la donna è sottoposta anche di fronte a se stessa: mi vesto «per me», mi trucco per me. Donna è bello. È beninteso una rivendicazione di autonomia. Ma l’aggettivo non è scelto a caso. Bellezza appartiene alla donna nel senso che se non è bella non è. O dev’essere una donna straordinariamente superiore, e anche allora si dice «malgrado…».
Il canone resta per lei obbligatorio, per l’uomo no. Ne viene che la nostra percezione del corpo deve attraversare, oltre a tutte le interdizioni primarie, uno spesso diaframma culturale. Se per uomo e donna il corpo «non si sa», o si sa meno di quanto si sappia di qualunque altro oggetto prossimo e presente, il corpo femminile si sa probabilmente meno di quello maschile per lo schermo dell’immagine/modello imposta alla donna in tutte le civiltà e attinente al suo ruolo sessuale.
In quanto tale, questa immagine di sè, differentemente da quella maschile che si realizza in molte altre rappresentazioni, ha del sesso l’oscurità e il pericolo, la natura estrema di momento di accettazione o rifiuto, di esperienza limite. (Che un po’ ingenuamente le bene intenzionate «liberazioni sessuali» tentano di addomesticare in tecnica soddisfacente, ridotta nell’impatto emotivo. Ancora una suggestione maschile, chissà quanto veritiera: far l’amore vuol dire sentirsi meglio, come l’assetato bene una spremuta d’arancio, con un poco di affettività in più e via).
Il dover fare i conti con questa immagine coattiva, con il vedersi vista, complica il rapporto femminile col corpo aggiungendosi al carico simbolico della maternità; sono due corazze che le vengono pesantemente collocate sul «guscio». Che in lei è importantissimo anche in senso stretto, di pelle.”

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La perdita

Manuela Fraire e Rossana Rossanda, “La perdita”, a cura di Lea Melandri, Bollati Boringhieri 2008.
“Un pezzo di noi, dietro, abituandoci”. (Rossanda)
(Stralci dalla mia Lettura)
“Due donne, a cui mi legano un profondo affetto e una lunga amicizia, hanno deciso di riflettere insieme su un tema dalle molte sfaccettature come la «perdita», e di parlarne «senza perdersi di vista». A me arrivano i loro pensieri e le loro parole divenuti scrittura nelle pagine della rivista che ne ha dato diffusione pubblica. Non saprei dire che cosa più mi ha spinto a promuoverne la ristampa: se il desiderio di allargare l’ascolto di due singolari voci dialoganti a chi non ha avuto l’occasione di avere tra le mani la «Rivista di Psicologia analitica» (69/2004, nuova serie n. 17), o la fantasia di potermi ritagliare una parte, a lato e come una discreta accompagnatrice, rispetto al fluire di un discorso denso di suggestioni intellettuali ed emotive, catalizzatore di memoria e, insieme, di grandi narrazioni storiche.
Dal giorno in cui ho saputo che ciò era possibile a oggi, è passato più di un anno, molti altri progetti, letture, scritture, incontri hanno preso il sopravvento, molte altre voci si sono addensate, dissonanti, a coprire il silenzio necessario per en-trare in un ordine di pensieri inquietante e doloroso. C’era all’orizzonte, come il cielo scuro che dissuade dal mettersi in viaggio, il declino lento di mia madre; c’era, confuso con quel corpo famigliare la cui perdita mi sembrava intollerabile, l’at-tenzione crescente ai segnali del mio invecchiamento.
La «perdita» era un tema da un lato troppo presente, dall’altro ancora lontano: idea assillante ma sospesa sul vuoto dell’esperienza che avrebbe potuto sostanziarlo di pensieri e sentimenti reali. Forse la condizione «giusta», né troppo dolorosa né troppo distaccata, per pensare la morte propria e delle persone che abbiamo amato, non si dà mai. La morte, come coscienza che siamo destinati a scomparire «uno a uno», come dicono Rossana e Manuela, è il «grado zero» della rappresentazione, l’«impensabile». Tra tutte le opposizioni «incomponibili» che danno un’impronta «tragica» alla vita, la più resistente ai nostri sforzi di pacificazione è sicuramente quella di un Io costretto a riconoscersi straniero nel proprio corpo, parte del ciclo biologico e, al medesimo tempo, di una «natura» speciale, irriducibile alla materia di cui sono fatti gli altri viventi.
O vivi evitando di pensare alla morte o vivi una finitezza che ti nega. (Rossana)
Eppure c’è un momento in cui «pensare e scrivere la morte» non è più quell’impresa ardua che viene lasciata ai poeti, ai mistici, ai visionari. È quando si apre, dentro il ritmo vertiginoso degli impegni e delle relazioni quotidiane, una smagliatura, il passaggio rapido, inafferrabile di un tempo «altro», la percezione che i morti, gli amici, i famigliari che abbiamo perduto strada facendo, non ci hanno mai lasciato del tutto, «un pezzo di noi, dietro, abituandoci».

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